La confessione

di Carlo Xodo

“Come back alive, come back still friends, go to the summit: in that order…”
Gli occhi di Marina si illuminarono:
“Bellissima, chi l’ha detta?”
“Ehm… sono certo fosse il motto di Ardito Desio per la spedizione al K2!”

Stefano scoppiò in una sonora risata:
“Ha ha ha, Damiano, prova a chiederlo a Bonatti! No, si tratta di un gran figlio di puttana, punk e nichilista: Mark Twight.”
“Be'”
– concluse Marina – “La vita, l’amicizia e, se tutto funziona, la cima. Figlio di puttana, forse, ma certamente con idee condivisibili sull’alpinismo e l’esistenza in genere, no?”

illustrazione di Jamie Givens

Eravamo arrivati al piccolo rifugio appena in tempo per evitare i primi violenti scrosci di pioggia. Il cielo, nonostante fossero appena le sei di sera di una lunga giornata di inizio luglio, era diventato pressoché nero. La pioggia battente, il rombo dei tuoni ed i lampi dei fulmini che disegnavano ragnatele sopra le cime rendevano ancora più piacevole il tepore della piccola sala e le nostre chiacchere di fronte all’immancabile birra. L’ora di cammino sul comodo sentiero che ci separava dalla macchina non ci dava la minima preoccupazione, avremmo potuto tranquillamente scendere anche al buio, se fosse stato necessario. E certo, nessuno di noi aveva una gran fretta di tornare in città.

Lo sconosciuto con cui condividevamo il tavolo, come si usa in rifugio, alzò per la prima volta gli occhi dal libro che stava leggendo.

“Una gran bella filosofia… magari gli alpinisti, anzi, tutti gli uomini la pensassero così!” – Chiuse il libro e lo appoggiò al centro del tavolo, mostrandoci la copertina. – “Conoscete questa storia? Una delle tante tragedie avvenute sull’Eiger, ma soprattutto la vita di un uomo semplice tentata dall’ambizione e poi aggredita da invidie e calunnie.”

Sì, conoscevamo bene quella storia. Solo un paio di settimane prima Stefano l’aveva citata nel suo blog, invogliandoci ad approfondire la vicenda di Claudio Corti, la sua salita all’Eiger con lo sfortunato Alberto Longhi ed i due giovani tedeschi incontrati in parete. Eravamo rimasti tutti colpiti dallo strascico di viltà e polemiche che seguì il salvataggio di Corti, unico sopravvissuto tra i compagni di cordata.

“Allora, se permettete, – continuò – vi offro un altro giro di birre e vi racconto io una breve storia di cui sono stato testimone. Questa certo non la conoscete. Si tratta sempre di ambizione ed invidia, un cocktail velenoso, in grado di rovinare anche le più fortunate esistenze.”

Non ci lasciò il tempo di replicare e, ordinate le birre, iniziò il suo racconto.

“Il primo personaggio di questa storia, lo chiamerò Alberto. Un uomo ambizioso, fin da ragazzino si era posto l’obiettivo di “fare carriera”, senza nemmeno aver chiaro il come o in che campo. E ci riuscì. Dopo una laurea non brillante, cercata solo per la sicurezza che il titolo di dottore gli avrebbe dato, aveva percorso con una certa spregiudicatezza i gradini che lo avevano portato a diventare un importante quadro in una solida multinazionale tedesca. Il trasferimento a Monaco ed il matrimonio con la bella e giovanissima figlia di uno dei maggiori dirigenti, lo avevano poi proiettato ai vertici. Insomma, sentiva di aver raggiunto il suo obiettivo, eppure… la bella casa con tutti i vari simboli della sua affermazione e tutta la vita così come si era immaginato, cominciavano a lasciargli un senso di insoddisfazione. Forse, all’età in cui pensava di godersi il suo successo, aveva iniziato a porsi domande che prima non lo avevano mai sfiorato. Era davvero quello ciò che aveva sempre voluto? O forse fu un principio di depressione. Così, in poco tempo, perse parte della sua “efficacia” nel lavoro, come non mancarono di fargli notare i suoi super competitivi colleghi. E certo, anche nella vita privata, che del resto lui non aveva mai diviso da quella lavorativa, le cose non andarono meglio. Arrivò il divorzio e quasi contemporaneamente l’offerta di lasciare Monaco per una sede secondaria, sempre comunque con un ottimo stipendio. Provò a reagire, valutò l’idea di licenziarsi per rilanciarsi in un’azienda concorrente. Ma finì con l’accettare.

Tornò in Italia, proprio nella cittadina del nord-est da cui era partito. Ristrutturò la casa che i genitori, morti entrambi ormai da anni, gli avevano lasciato. Era ricco, aveva un lavoro ormai più tranquillo e passati da tempo i cinquant’anni pensava di potersi godere comunque la vita. Ricominciò a frequentare i vecchi conoscenti – amici davvero non ne aveva mai avuti – e ricominciò con loro ad andare in montagna, qualche lunga camminata e semplici arrampicate, come aveva fatto per un breve periodo da giovane. Voleva convincersi di stare bene così. Di aver scelto, adesso, di voler vivere in quel modo.

Ritrovò anche Bruno, il secondo personaggio di questa storia, l’unico con il quale si fosse avvicinato quasi all’amicizia tanti anni prima. Avevano anche condiviso un’avventura alpinistica in gioventù. Dopo un bivacco imprevisto per aver sbagliato la via di discesa da una cima dolomitica, erano stati recuperati da un elicottero del soccorso alpino allertato dai genitori di Alberto, preoccupati per non averlo visto tornare la sera.

La passione di Bruno, fin da quegli anni, era stata la montagna. Aveva fatto molti piccoli e diversi lavori pur di avere la libertà di gestire il proprio tempo giorno per giorno. Poi, per un lungo periodo, era andato a vivere in Val D’Aosta, gestendo un rifugio. Era tornato da un paio di anni, accettando un lavoro in un negozio di articoli sportivi e diventando, ovviamente, il punto di riferimento per tutti gli appassionati di montagna della zona.

Così Alberto iniziò a dedicare parte del suo tempo libero a mantenersi in forma per le uscite del fine settimana e colse l’occasione di frequentare un paio di corsi di alpinismo del C.A.I., dove Bruno era istruttore.

Era felice? Forse, ma qualcosa ancora non andava. Dal giorno del divorzio sentiva dentro come una ferita che non voleva rimarginarsi. Non aveva mai amato veramente la sua ex moglie, ma quando seppe che si era già risposata ed era diventata madre di quel figlio che lui, troppo impegnato, non aveva mai voluto darle… be’, quella ferita ricominciò a sanguinare. Sempre di più gli si insinuava il doloroso dubbio che la sua vita fosse sfuggita al suo controllo. Prima era lui l’uomo amato, era lui il punto di riferimento, quello a cui gli altri dovevano adattare il passo. Ora non più.

Provò a dirsi che stava troppo bene per stare male.

Nella sua testa cominciarono a presentarsi fantasie di vendette verso la moglie, l’azienda, tutti quegli stronzi imbecilli… e Bruno. Sì, l’amico Bruno. Quell’inetto, sempre al centro dell’attenzione di tutti. Le sue storie di arrampicate, la sua falsa modestia. Il suo essere al centro dell’attenzione di quella banda di idioti perditempo. La sua parte razionale rifiutava con energia tutto questo, continuava a dirsi che la sua vita era come la voleva. Continuava a comportarsi amabilmente con tutti. Intanto, però, nella sua testa Bruno cominciava a diventare il principale obiettivo dei suoi rancori. Rimosso il pensiero per la moglie e forzatamente cancellati gli anni in Germania – tutto troppo lontano ormai – era diventato lui adesso il vero ostacolo da rimuovere. Più lo frequentava e più il suo inconscio gli suggeriva di odiare quel pupazzo effimero. E più lo frequentava e più, da fuori, sembravano veri amici. Finché decise di venire a patti con quella insistente voce dentro di sé. Gli permise di giocare con la sua parte razionale a costruire un delitto perfetto. Tanto, si disse, è solo un gioco della mente. Un innocente sfogo. Fantasticava di eliminare Bruno, e giorno dopo giorno, sempre per gioco si ripeteva, immaginava piani e scenari.

Così, quando Bruno gli propose di andare, solo loro due, a ripetere la via di roccia dove erano stati prelevati dall’elicottero del soccorso, una parte di Alberto sentì che era arrivato il momento dell’azione. Era ripassato sotto l’attacco della via – e non casualmente – poche settimane prima, durante una lunga camminata solitaria.  Si trattava dello spigolo Crepaz al Tàmer Davanti, sopra passo Duran. Tutto era rimasto come trent’anni prima, selvaggio e assolutamente poco frequentato. In più, come aveva constatato, il telefono cellulare non aveva la pur minima copertura.

Ed eccoli Alberto e Bruno, verso l’attacco della loro via. Scherzano su quanto accaduto anni prima, ridono entrambi della loro disavventura. Due amici felici. Solo Alberto, un po’ più ansimante. Sì, la sua forma fisica non è certo all’altezza di quella di Bruno, che comunque rallenta senza farglielo pesare. Ma c’è dell’altro, c’è la fatica di nascondere la tensione che sente dentro. Fin qui era convinto fosse tutto un gioco, sa di essere venuto per arrampicare con Bruno e basta. Eppure, la tentazione, l’andare e venire di quell’idea, la lotta tra il senso della realtà e la possibilità di fare… quella cosa.

Bruno si accorge che qualcosa non va, gli propone una sosta, gli offre la sua borraccia per bere. Alberto lo guarda negli occhi e sorride. Si sente offeso da quelle premure, ma non lo da a vedere. Adesso ha deciso. Iniziano ad arrampicare, Alberto è lento, ma anche questo fa parte del suo piano.

Finalmente arrivano al terrazzino del precedente bivacco. Anche questa volta è tardi, il sole sta quasi tramontando. Bruno scherza sulla situazione, tanto questa volta non disturberanno nessuno, aveva previsto di poter dormire fuori.

Alberto, nel suo piano, pensava di simulare stanchezza, ma stanco ed in confusione lo è davvero. L’idea era di fingere che la corda si fosse ingarbugliata per far sì che Bruno si slegasse un attimo, credendosi al sicuro sull’ampia cengia. Ed è quello che comunque succede, infatti! Approfittando dell’attimo in cui gli da le spalle per riagganciare il moschettone al chiodo di sosta Alberto si slancia e… inciampa miseramente, finendo col cadere nel vuoto.

Bruno, udendo l’urlo dell’amico, si gira di scatto e riesce a stringere la corda ancora vincolata con il mezzo barcaiolo al moschettone di sosta. Con un enorme sforzo, bruciandosi il palmo delle mani fino all’osso, arresta la caduta.

Ormai si sta facendo buio, pochi metri sotto il terrazzino Alberto sta imprecando tra lacrime di dolore e di rabbia.

Il piano era ben congegnato. I cellulari non avevano campo e non c’era modo di chiamare soccorsi. Pensava a questo mentre era malamente appeso nel buio. Almeno una caviglia rotta, questo era certo, e botte varie, dappertutto. In più, si era pisciato addosso.

Bruno intanto lo chiamava e lo confortava: lo avrebbe portato giù presto, glielo giurava.

E così fece. Riuscì a ridiscendere la parete calando il compagno con eccezionali manovre nel buio, nonostante le mani ferite. Giunto alle ghiaie se lo caricò in spalla portandolo quasi fino a Passo Duran, da dove finalmente allertò il gestore del rifugio.

Passarono qualche giorno di ospedale nella stessa camera. Bruno era diventato l’eroe del salvataggio e Alberto, anche se nessuno glielo diceva apertamente, era quello che era “inciampato allacciandosi le scarpe”. L’ultimo schiaffo fu sentire Bruno assumersi la colpa per non averlo correttamente assicurato prima di iniziare a disingarbugliare la corda.”

Lo sconosciuto bevve un lungo sorso di birra e si appoggiò allo schienale della panca, come per dirci che il racconto finiva lì. Ma si capiva chiaramente che si aspettava una nostra domanda.

Fu Damiano a parlare:

“Non può lasciarci così, cosa è successo poi ai due protagonisti?”

Un’altra lunga sorsata di birra:

“Ah…. Bruno non ha più arrampicato. Diceva che con quella vicenda per lui si era chiuso un capitolo. Appena ristabilito decise di fare un lungo viaggio per l’Europa in motocicletta. Per anni aveva sfruttato tutto il tempo libero in montagna o per la montagna e adesso voleva vedere altro. Ha conosciuto una ragazza francese, giovanissima, metà dei suoi anni, più o meno. Ora vivono nel Périgord, hanno due figli piccoli ed una grande casa in pietra con stanze che affittano ai turisti. Mi capita di andarlo a trovare, qualche volta. Davvero una vita invidiabile!”

Finì la birra e fece per alzarsi.

“E di Alberto, non ci dice nulla?”

Si risedette lentamente. Sembrava che recitasse una parte già replicata più volte.

“Alberto? Alberto ebbe un lungo pessimo periodo. La caviglia, nonostante le migliori cure, non tornò più a posto come prima. Niente di debilitante, ma l’articolazione rimase parzialmente bloccata. La cosa peggiore fu che sembrava davvero andato fuori di testa. Beveva e quando aveva bevuto insisteva ad accusarsi di tentato omicidio, raccontando a chiunque gli capitasse a tiro il suo “piano perfetto”. Perse il lavoro e buona parte dei cospicui risparmi che aveva accumulato negli anni. Gli amici provarono a proporgli di curarsi, ma lui rifiutava anche l’idea di poter essere in qualche modo ammalato. Colpevole, sì, ma non c’era cura per quello, sosteneva. Poi, quasi inspiegabilmente, un po’ alla volta ne venne fuori. Gli era rimasta la casa, ancora comunque qualche soldo e con le sue conoscenze riuscì a mettere in piedi una tranquilla attività di consulenze. Il minimo, sufficiente a godersi una vita sobria e lunghe escursioni in montagna.

Però, credetemi, io ormai lo conosco abbastanza bene: secondo me tutta quella storia della cengia… insomma, il fatto che lui volesse buttare di sotto Bruno. Io sono convinto sia stata tutta una storia che la sua mente ha creato dopo l’incidente. Davvero, credo che alla fine anche lui si sia convinto, e questo sicuramente lo ha salvato dalla sua depressione: su quella cengia stava semplicemente, goffamente, chinandosi per sistemare i lacci delle scarpette da arrampicata.

Il cielo si era rischiarato, ancora solo qualche goccia di pioggia nell’aria trasparente. Lo sconosciuto guardò fuori dalla finestra e ci sorrise.

Si alzò, raccolse lo zaino e senza dire altro uscì dal rifugio. Zoppicando leggermente.

foto di Mauro Girotto ©

L’idea per questo racconto mi è venuta da un divertente scambio di commenti sulla bacheca di Stefano in Facebook, un po’ di tempo fa. Il primo paragrafo con la citazione di Mark Twight è a sua volta quasi una citazione esatta di un dialogo con altri amici, sempre sulla bacheca di Stefano.

Carlo Xodo
Lunghi studi di architettura a Venezia ed un lavoro che, ovviamente, ha poco o nulla a che fare con quello che ho studiato.
Amo la montagna e molte (troppe) altre cose che finisco solo per sfiorare. Però in montagna ci ritorno sempre, magari col fiatone ed i soliti buoni propositi di rimettermi in forma.
Non a caso il mio eroe è Zeno Cosini…

Fotografie di

Mauro Girotto www.flickr.com
illustrazione di Jamie Givens

© Alpine Sketches 2011